Twitter, class action degli ex dipendenti contro i licenziamenti
Per Twitter, con l’inizio dell’era Elon Musk, parte il brutale licenziamento di massa di metà dei 7.500 dipendenti dell’azienda, come annunciato del nuovo Ceo pochi giorni dopo l’acquisizione della piattaforma per 44 miliardi di dollari e dopo il siluramento dei top manager. Lo scrive il New York Times, che ha visionato una copia della mail inviata ai dipendenti. Il messaggio ordina loro di andare a casa e di non tornare in ufficio venerdì mentre procedono i tagli. La reazione degli ex lavoratori è stata immediata: al via la class action contro il colosso che non ha dato il giusto preavviso.
Cosa è scritto nella email di licenziamento – L’email, proveniente da un indirizzo generico sotto la firma di Twitter, non parlava del numero totale di licenziamenti. “Nel tentativo di porre Twitter su un percorso salutare, attraverseremo il difficile processo di riduzione della nostra forza lavoro globale”, è scritto. “Riconosciamo che ciò avrà un impatto su un certo numero di persone che hanno dato un prezioso contributo a Twitter, ma questa azione è purtroppo necessaria per garantire il successo dell’azienda in futuro”.
Al via la class action di un gruppo di ex dipendenti – Dopo aver ricevuto l’email un gruppo di ex dipendenti di Twitter ha presentato una class action al tribunale di San Francisco contro l’azienda di Elon Musk. Gli ex dipendenti accusano il colosso di non aver ricevuto il preavviso di 60 giorni stabilito dalla legge e di aver appreso del loro licenziamento, ieri, quando hanno trovato i loro account bloccati. Lo riportano i media americani. In una comunicazione interna inviata ieri la compagnia di San Francisco avvertiva i dipendenti che avrebbero ricevuto un’email in caso di licenziamento. Ma molti impiegati hanno cominciato a condividere sui social media di non poter più accedere ai loro account, scoprendo di essere stati cacciati (da Tgcom del 05/11/2022)
Class action Usa contro Barilla: la “pasta numero uno in Italia” è fatta in Iowa
“Mamma mia! La pasta più famosa d’Italia è fatta nell’Iowa”. L’enfasi con cui il New York Post ha rilanciato la notizia, indica l’impatto della rivelazione sul pubblico americano: una class action è stata avviata nei confronti della Barilla per aver fatto credere che pasta e confezione vendute in Usa venissero direttamente dall’Italia, e non dagli stabilimenti di New York e dell’Iowa.
Una giudice federale, Donna Ryu, ha ritenuto legittima la class action, riconoscendo che la pubblicità era ingannevole, cioò lo slogan presente nella confezione in cui si parla di “Italy’s No.1 brand of pasta”. I due firmatatori della causa, Matthew Sinatro e Jessica Prost, sostengono di aver acquistato nel tempo confezioni di pasta Barilla convinti che venissero direttamente dalla terra dei loro antenati, non solo per una questione sentimentale, ma per la ualità del grano e della lavorazione. Quella americana non rispetta gli stessi standard.
Sinatro e Prost sostengono che se avessero conosciuto la vera provenienza, non avrebbero comprato la pasta. “Le accuse – ha dichiarato la giudice federale – sono sufficienti a stabilire un danno economico di rilievo costituzionale”. I prodotti, acquistati in California al prezzo di due dollari a confezione, più o meno lo stesso richiesto a New York, davanti l’idea di essere stati prodotti e confezionati in Italia e di aver fatto più di novemila chilometri per arrivare nella costa ovest degli Stati Uniti.
Anche il fiorire di bandiere tricolori ha indotto a credere che gli spaghetti, i “macaroni”, tortiglioni, fusilli e e penne arrivassero dall’Italia. La giudice ha bocciato la posizione di Barilla, che chiedeva di archiviare la causa, facendo notare che il richiamo all’Italia era solo per ricordare le origini dell’azienda. Secondo molti studi legali, negli Stati Uniti i consumatori sono sempre più convinti di essere ingannati dalla pubblicità e così fioccano le cause, anche quando quello che viene promosso corrisponde alla realtà.
Ma la battaglia sulla pubblicità ingannevole negli Stati Uniti risale all’800. Negli anni recenti i casi si sono moltiplicati, dalla cioccolata prodotta in Svizzera ai tacos messicani. Ora è toccato alla pasta italiana, anzi quella prodotta in Iowa. Alla fine è possibile che si vada verso un accordo economico, per risarcire Sinatro e Prost degli acquisti.
La società italiana ha fatto sapere a Repubblica la sua posizione sullla vicenda americana. Il gruppo fa sapere che “Barilla è impegnata a difendersi con vigore da affermazioni che riteniamo senza fondamento, dato che sulle confezioni di pasta Barilla prodotte negli Stati Uniti è chiaramente riportata l’indicazione Made in the U.S.A. with U.S.A. and imported ingredients. Le informazioni su dove viene prodotta la pasta Barilla sono inoltre disponibili pubblicamente anche nella sezione FAQ del sito web di Barilla US”. La società rivendica che “in Usa diamo lavoro a centinaia di persone” e spiega ancora che “oggi tutta la pasta Barilla venduta in Usa è prodotta nei nostri stabilimenti di Ames, in Iowa e Avon, nello Stato di New York. Fanno eccezione solo alcune referenze di pasta ripiena prodotte in Italia, e anche in questo caso l’informazione è riportata con chiarezza in etichetta”. Nei pastifici Usa, chiosa la società “facciamo pasta con lo stesso procedimento produttivo utilizzato in Italia”. E “siamo i primi a voler fare chiarezza su questa vicenda e siamo fiduciosi in un esito positivo” (da La Repubblica del 22/10/2022).